La veglia.

Cara Contessa,

Pare che l’avventura di Guglielmo Valdara, se non l’ha proprio convinta, l’abbia scossa, almeno, e indotta a dubitare di ciò che prima asseriva con troppa fermezza. Infatti, concedendomi che le donne stiano attente alla bellezza degli uomini da amare più che non alla morale altitudine di essi, ella mi domanda: «E gli uomini, allora? Che altro cercano, se non le qualità fisiche? Che prezzo dànno alla bontà, all’intelligenza, alla virtù? E allora oserete fare una colpa a noi donne se la bellezza ci seduce? Ma se noi le diamo tanta importanza, se la cerchiamo con tanto impegno, se non amiamo senza trovarla vuol dire, mi pare, che siamo ad essa sensibili; voialtri, invece, non ne fate anche a meno, tantissime volte? Non avete riconosciuto che una donna qualunque, una femmina purchessia, è dai maschi desiderata e cercata? Dite benissimo; ma la conseguenza che traete da queste premesse è storta, stravagante e tutta opposta a quella che dovrebbe essere; perchè mentre la logica dovrebbe farvi riconoscere che gli uomini amano meno bene, la presunzione vi fa dire che essi soli sanno amare!...»

Io direi, contessa, di non ingolfarci in questo dibattito. Tanto, è fuori di dubbio che, dopo avere versato fiumi d’inchiostro, ciascuno s’affermerà nella propria opinione. Sarà anche inutile tirare in ballo i grandi scrittori passati e presenti; perchè, se Shakespeare ha detto che «l’impronta dell’amore nel cuore delle donne è come la figura disegnata sulla neve, che un raggio di sole cancella,» ella mi rovescerà addosso una quantità di moralisti, di pensatori, di poeti che dànno ragione a lei. Dunque, lasciamola lì. Soltanto, perchè ella non mi scambii le carte in mano — tutte le signore sono felici quando riescono a barare al giuoco — la pregherò di notare che noi parlavamo d’uomini e di donne, non già di maschi e di femmine. Nella bruta ed infima umanità, come in tutto il regno animato, l’ardenza dei bisogni mascolini è tale, che fa passar sopra ad ogni qualità nelle femmine da amare, mentre la freddezza femminile ha bisogno dello stimolo e dell’eccitazione prodotti da maschi appetibili per bellezza o per forza. Ma questi amori meccanici sono amori nell’umano senso della parola? Amori sono quelli delle creature dotate di spirito, d’anima, di mente, di cuore: or siccome il cuore, la mente, l’anima, lo spirito degli uomini sono più vasti, più potenti, più alti, più forti di quelli muliebri, così gli uomini amano meglio delle donne. L’istinto inferiore potrà bensì talvolta vincerli; ma anche allora essi trovano modo di riscattare le loro cadute. Ella mi dice che nessuna donna va in cerca del solo piacere, e sia come ella vuole; mentre un’infinità di uomini, soggiunge, e non già dei volgari ma dei più nobili, cercano un’infinità di volte «la pura — l’impura! — e semplice soddisfazione degli appetiti;» ma ciò che a lei par semplice non è poi tanto semplice come le pare; e ancora quando uno di costoro si trova in cospetto d’una mercenaria, sa ella che cosa prova? Invece d’imaginare i sentimenti che questi uomini possono provare in tali circostanze, ascolti piuttosto il fatto che voglio narrarle.

Non posso dirle a chi lo debbo. Il cantastorie di professione non avrebbe difficoltà di attribuirlo ad un personaggio fantastico, del quale foggerebbe lì per lì il nome e il cognome; ma se così facessi mi parrebbe di scemare la verità, di menomare il valore di questo fatto. E mi basterebbe, per un altro verso, dire il nome del mio confidente, che è uno dei più potenti e venerati Principi del Pensiero, perchè ella si disponesse a udirmi con più intensa curiosità e m’accordasse più sicura fede; ma io non posso e non debbo dirlo: giacchè, quand’anche l’usanza non vietasse di narrare intime cose del Genio finchè la manchevole vita lo tiene e quasi menoma la grandezza sua, il rispetto che ho per gli scrupoli di questo mio grande Maestro, i quali sono fra i più gelosi e delicati che la sensitiva Anima abbia mai educati, mi vieterebbe di tradire la confidenza della quale egli mi onorò. Ella si contenterà pertanto ch’io lo chiami Protagonista, senz’altro.

Protagonista significa, secondo l’etimologia, primo gareggiatore, ed egli era veramente alla sua prima gara d’amore. Non aveva ancora, non che posseduta, ma neppur vista una donna; intendo che il mistero della forma muliebre gli era sconosciuto. E doveva ancora compiere vent’anni, il che le dica se sentisse ardenti gli stimoli dell’istinto. E s’era abbeverato di poesia, il che le dica con quanto struggimento aspettasse e sognasse d’amare. Ma il tempo passava, egli avanzava nella vita, e la Terra Promessa non appariva. Egli sentivasi solo, monco, incompiuto: ma la metà di sè stesso della quale era privo, l’essere del quale aveva bisogno, non compariva ancora. Per appagare, con l’ardente bisogno, l’esasperata curiosità, egli non trovò di meglio che varcare, una sera, la soglia d’uno di quei luoghi dove si vende il Piacere, ma si compra il Disgusto. Quanti uomini sono stati iniziati alla vita nuziale in modo meno indegno? Pochi uomini, in verità; tanto pochi che non è da stupire se, dopo questo primo avvilimento, s’ode poi così spesso negare ogni ideale richiamo nei rapporti d’amore e tutto ridurre alla soddisfazione del cieco appetito. Ma la sete di qualche altra cosa, se fu provata una volta, potrà mai spegnersi del tutto, qualunque sia stato l’orror della prova? Ed ella udrà che cosa fece, per questa sete, il mio Protagonista.

Era la prima volta che aveva denaro da buttar via, e alle miserevoli creature che annegano la tristezza nel vino egli pagò da bere. Voleva forse annegare la sua propria tristezza? No, non era triste; era risoluto, cosciente di sè; aveva precisamente deliberato di fare ciò che faceva. Pagò del vino di Sciampagna, il vino delle cortigiane, e ne bevve anch’egli; poi condusse con sè una di quelle sciagurate. Seppe scegliere: in mezzo alle maschere di belletto e di cerussa, alle forme deturpate dal vizio, alle animalesche bellezze destituite d’ogni espressione, egli vide e preferì la figura più umana. Denudato, il corpo della Mercenaria appariva perfetto. Come mai, dirà ella, poteva costui giudicare intorno a questa perfezione, se ancora non aveva visto altre donne? Vive donne non aveva vedute; ma la pura idea della Bellezza che l’arte miracolosa ha saputo esprimere dalla greggia realtà gli stava da tempo dinanzi agli occhi dell’anima; e di che senso d’arte egli fosse e sia dotato, dissero e dicono i prestigi delle sue opere. Quand’anche il suo giudizio d’allora non paresse troppo attendibile perchè egli non aveva termini di paragone, i paragoni che più tardi istituì, nel corso d’una molto variata e sagace esperienza d’amore, gli fecero riconoscere che non l’accesa imaginazione nè la violenza dei desiderii conferivano a quella donna qualità che non possedeva, ma che veramente egli si trovò, per un caso fortunato e troppo infrequente, dinanzi a una grande bellezza avvilita.

Dunque la sua vista pascevasi alfine del fantasticato spettacolo, questa volta alfine non i sogni lo visitavano; materiata di elastiche polpe e di purpureo sangue, palpitante di vita, docile e pronta gli stava al fianco una donna, la Donna. Perchè, dove ogni altro avrebbe visto una femmina, il Protagonista, dimentico del luogo che l’accoglieva e del mestiere che vi esercitava, o non dimentico, anzi cosciente di queste cose, vedeva e sentiva che, nonostante, la creatura distesa accanto a lui era la creatura aspettata e promessa, il sospiro delle sue solitarie notti, il bisogno della sua monca esistenza; vedeva e sentiva che, qualunque fortuna l’avvenire gli potesse serbare, mai più egli sarebbe riuscito a dimenticare la turbata meraviglia, il piacer trepido e quasi pauroso del quale era pieno in quell’iniziale momento. Di chi la colpa, se la prima donna ch’egli aveva al fianco non era una vergine come lui ignara e turbata, ma una mercenaria? Non di lui, non di lei. La colpa era degli uomini, delle loro dure leggi, o piuttosto della più dura, dell’iniqua e incorreggibile legge della vita. E un bisogno di ribellarsi alla stolta logica umana, di giudicare con la sua mente e col suo cuore, dall’alto; di correggere la tristezza della profanazione che questa vita gli faceva commettere; e una tenerezza pietosa per la sciagurata che gli s’offeriva, e un istinto di nobiltà e di rispetto dal quale ella potrà giudicarlo; il cumulo di queste e d’altre ragioni non bene precise nella sua coscienza, lo indussero... a che cosa? A restare tutta una notte con la mercenaria, senza toccarla.

Ella sa l’usanza della cavalleria, ai tempi andati: un libro immortale, il romanzo di Don Chisciotte, l’ha fatta nota a chi meno s’intende delle cose della Tavola Rotonda. Il giovane signore, prima che fosse armato cavaliere, doveva passare tutta una notte vegliando l’arme. Rammenta ella la scena che descrive Cervantes? Don Chisciotte, raccolti e indossati i pezzi spaiati d’un’arruginita armatura, li dispone entro una pila, accanto a un lavatoio, nel cortile d’una taverna: per l’imaginoso hidalgo della Mancia quegli oggetti in quel luogo si trasformano prodigiosamente, sono il più forbito e prezioso arnese nella chiesetta del più signorile e potente castello; la qualità reale delle cose sfugge ai sensi del sognatore: l’anima sua accesa dalla bellezza conferisce a tutto le qualità desiderate. Come l’eroe leggendario, il Protagonista non vide, dimenticò, volle ignorare la mercenaria e la suburra: egli si sentì come dinanzi a una Sposa, e come dinanzi a una Sposa restò timido e trepidante.

Ella sorride; anzi non sorride, deride. Ella pensa un bisticcio e dice tra sè che anche questo mio Cavaliere fece una «trista figura.» Io debbo disingannarla. Certo non è raro che il morale turbamento impedisca le operazioni dell’istinto, ed è vero che il segno del massimo amore consiste nel non potere temporaneamente amare. L’amor proprio, che si caccia dovunque, rende insoffribile agli uomini il fiasco stendhaliano che invece suol essere molto lusinghiero all’amor proprio delle donne. Ne godono esse perchè è sintomo del sentimentale invasamento, o non piuttosto perchè, l’amore essendo fatto di odio e l’abbraccio dei due amanti somigliando troppo alla lotta di due nemici, le sconfitte e le mortificazioni dell’uno sono naturalmente vittorie ed esaltazioni dell’altra? Lasciamo che ciascuno risponda a suo modo: il fatto è innegabile, e una donna molto esperta, ad un amante che, per assicurarla dell’amor suo, le rammentava la foga del primo amplesso, ebbe ragione di dire: «Ciò non prova nulla, al contrario!...» Ma, per tornare al nostro soggetto, tutt’altro fu il caso del Protagonista. Non i sensi gli disobbedirono, ma egli stesso si dominò. A cogliere il frutto delizioso egli era pronto; niente e nessuno gl’impediva d’assaporarlo, fuorchè la sua propria volontà. Egli non doveva metter opera ad eccitarsi, come accade a coloro cui manca d’improvviso l’ardire; al contrario, faceva di tutto per domarsi, per resistere a un impulso veemente.

E comprende ella lo sbalordimento di quella donna? Alla sciagurata per cui le fantasie dei clienti erano leggi, qual altra fantasia dovè far sospettare quel nuovo contegno? Per un poco si sforzò di comprenderlo, invano; perchè se il Protagonista racconta ora quella sua avventura a chi è capace d’intenderla, non poteva allora aprire alla mercenaria l’animo suo. Che stranezza, è vero? E come stranezze simili sono frequenti in più degni amori! Una donna c’ispira uno scrupolo ideale, ci fa provare un sentimento raro e ineffabile, ci procura impressioni insolite e squisite; noi l’amiamo per questo, l’amor nostro è fatto di questo... e non possiamo aprircene con lei, perchè sentiamo che non c’intenderebbe; e, ciò sapendo, continuiamo ad amarla... Che cosa prova questo fatto, se non che l’amore è un impulso prepotente ed una fioritura miracolosa soltanto nei sensi e nel cuore degli uomini? Se la Mercenaria non poteva comprendere lo scrupolo di rispetto e il bisogno di nobiltà che tormentavano il Protagonista, quante altre donne comprendono la poesia che a loro insaputa suscitano nel cuore dei loro amanti? E di quasi tutte non si potrebbe dire ciò che un Poeta disse di una:

Ce que j’aimais, en toi, c’était ma propre ivresse;
Ce que j’aimais, en toi, je ne l’ai pas perdu.
Ta lampe n’a brûlé qu’en empruntant ma flamme.
Comme le grand convive aux noces de Cana,
Je changeais en vin pur les fadeurs de ton âme,
Et ce fut un festin dont plus d’un s’étonna.
Tu n’a jamais été, dans tes jours les plus rares,
Qu’un banal instrument sous mon archet vainqueur,
Et comme un air qui sonne aux bois creux des guitares,
J’ai fait chanter mon rêve au vide de ton coeur...

La mercenaria, rinunziato a capire il capriccio del nuovo cliente, finì col prender sonno. Ella dormì fino all’alba stupidamente serena. Il Protagonista, il Poeta, l’Uomo, vegliò, si tormentò per vegliare, senza toccarla, la Forma della Bellezza, per non profanarne la prima rivelazione, per fare di quella notte, che doveva essere una stupida orgia, un puro ricordo. All’alba si levò, baciò in fronte la mercenaria, e andò via.

CC BY-SA 4.0

Rechtsinhaber*in
Ulrike Henny-Krahmer

Zitationsvorschlag für dieses Objekt
TextGrid Repository (2024). Collection of Italian Short Stories and Novellas (1880s-1920s). La veglia. La veglia. The CLiGS textbox. Ulrike Henny-Krahmer. https://hdl.handle.net/21.T11991/0000-001D-9CFC-6