La stella sirio.

Alfonso Graldi entrò nella stanza del fratello e gli chiese:

— Hai sentito che cosa han detto le Raffi: dei socialisti e di Turri?

Raimondo lo guardò, e tacque. Non ricordava e ricercava nella memoria. Ma Alfonso interpretò quel silenzio e quello sguardo quali segni di apprensione per lo stesso suo dubbio e di timore per una deliberazione grave. E disse, calmo:

— Sta attento.

Poi, dominandosi e augurando la buona notte, uscì.

— Le Raffi? — Raimondo ricercava. — Vattelapesca! — Mentre discorrevano, su la terrazza, egli osservava Vega, Arturo e Antares. — Attento? A che cosa dovrei stare attento? Ai socialisti? A Turri? Perchè? Mah!

Turri non era venuto a conversazione, quella sera, e nemmeno l’arciprete; e appunto perchè non aveva avuto gli amici con cui si intratteneva volentieri egli, alle chiacchiere delle informatrici, aveva preferito ascoltare ciò che gli dicevano le stelle.

— Domattina lo domanderò a Adriana — soggiunse —; se era presente e se ci avrà badato.

Anche Adriana infatti non dimostrava mai d’interessarsi ai pettegolezzi del paese, e, quando poteva, scampava dai fastidiosi argomenti di leghe, di soprusi municipali, di studiate rappresaglie, e battaglie minacciate, e sperate vittorie.

Raimondo si mise dunque a leggere il libro che gli giovava più del bromuro. Finchè l’occhio gli scorse su le righe senza più afferrarne il senso.

— Mio fratello — pensava — non è uno stupido; tutt’altro! Ma è vittima di una ambizione meschina. Vorrebbe prevalere a Castelronco. Che gloria!

A dir vero Alfonso Graldi non viveva solo nel paese e del paese. Arricchiva sempre più usando ingegno, energia e volontà in imprese agricole e industriali; estendendo l’opera sua in tutta la regione; acquistandosi stima invidiabile pur in città, dove si trasferiva l’inverno. Ma nel luogo nativo quasi per necessità doveva sorreggere i conservatori, e prepararli alla riscossa. — Bel gusto! — mormorava, malcontento, Raimondo. — Bel gusto consumar gioventù, forze, ingegno in simili lotte, per simili conquiste! Al solito: dispetti, ire, arrabbiature. E inganni da opporre, e insidie da evitare.... Ah ecco!

Aveva trovato: credè aver trovato ciò che avevan detto quelle pettegole Raffi. Una delle solite: la storia di un appalto favorito dal sindaco e conceduto alla lega dei birocciai, per la ghiaia; di una frode nella misura delle birocce. — E io, forse, dovrei stare attento quando passano di qua, per la strada, le birocce, e accertarne la misura, io, che non ho niente da fare? Io? Povero Alfonso! Ma, e come c’entra Turri?

Per non perdere il sonno che arrivava, Raimondo si disse: — Domani sera lo domanderò a lui. — E chiuse il libro. E lo schiarimento ultimo sembrò venirgli appena spento il lume:

— Turri avrà gridato alla frode senza prove sicure, e i socialisti se la prenderanno, al solito, con lui e con noi. Anche con me? Oh io non ci penso, povero Alfonso, a queste gran cose! Sta pur sicuro! Sirio....

— In cielo non c’è soltanto la luna per attestare, anche adesso, con la figura di Caino la nostra ignoranza, o non c’è soltanto il sole per abbarbagliare il nostro orgoglio, o Marte coi canali perchè possiamo riferire agli altri pianeti la nostra intelligenza e la nostra scienza, o Venere e Giove perchè troviamo lassù un termine di paragone al brillante e allo smeraldo che abbiamo in dito: c’è, a centro di un altro sistema planetario, una certa stella che si chiama Sirio, che in inverno e in primavera risplende mirabilmente e che col suo fulgore dovrebbe esortarci tutti a considerar più in là del nostro naso, della nostra terra e del nostro sistema planetario. Sapete con quale velocità corre la luce? Trecentomila chilometri al minuto secondo! Dico trecentomila chilometri al minuto secondo. Bene: sapete quanto tempo impiega Sirio a mandar a noi il suo fulgore? Sedici anni. Dico sedici anni! E sapete a che distanza corrispondono sedici anni di luce? A centocinquantasei bilioni di chilometri! Quando si consideri ciò, e quando si rifletta un poco che Sirio è vicinissimo in confronto alle nebulose, pare che le faccende dell’orbe terraqueo, non che gli avvenimenti della cronaca cittadina, i dibattiti del Consiglio comunale a Castelronco, gli interessi dei nostri amici o nemici, i casi e i beni e i mali delle nostre rispettabilissime persone, non possano avere una grande importanza nell’universo; non debbano avere nemmeno per noi l’importanza che crediamo noi.

Così Raimondo Graldi risolveva ogni questione, commentava ogni fatto, s’alleviava di ogni noia.

Ma non perciò era egoista e apate. Non era felice. Infermiccio sin da ragazzo, aveva trovata e protratta negli studi la sua illusione; e s’era consolato con la superiorità intellettuale che l’agiatezza gli consentiva di esercitare, in città e in villa a Castelronco, su un contorno di conoscenti e d’amici. E per un pezzo non si era accorto come in quella deferenza che gli dimostravano sottentrasse un sentimento di compassione, e doveva a Adriana — moglie di Alfonso da quattro anni — se aprendo gli occhi nella realtà del suo dominio egli aveva cominciato a disgustarsene. Non però un’intenzione maligna induceva Adriana ad essere sempre ironica con lui. La frivolezza e la mondanità (del mondo, naturalmente, fuori di Castelronco) sembravano accrescerle grazia, e la sua ironia era amabile perchè toccando solo gli studi che rendevan strano Raimondo e lo distoglievano dalla vita comune, significava insomma un riconoscimento della superiorità male riconosciuta dagli altri. E, anche, egli sentiva che il brio della cognata celava un segreto rovello. Forse perchè Adriana ormai disperava di divenir madre? Mah!

— Le donne, chi le capisce? — pensava Raimondo. — Mia cognata si direbbe leggera, eppure.... Si direbbe vana, eppure.... Si direbbe tal quale tutte le signore della società sciocca e falsa, eppure.... Soffre: questo è solo quel che ci capisco io!

Finchè un bel giorno egli, che tra le scienze in cui aveva delibato noverava anche la psicologia, credè penetrare senza più dubbio nel mistero di lei. Certe sue mosse, certe occhiate al marito, certe attitudini sdegnose o certe ostentate espressioni d’affetto quando Alfonso tornava a casa dopo le frequenti assenze, per osservatori inesperti sarebbero state prove di stanchezza, di freddezza, magari di un’antipatia insorgente e indarno repressa.

— Ma a me non me la dà a intendere! — pensò Raimondo. — Ho visto! Adriana è innamorata pazza di Alfonso; ne è appassionata; è gelosa delle occupazioni e dell’ambizione che glielo rubano.

Tanto vero che compiangendo sè stessa compiangeva chi sfuggiva alle affannose gioie dell’amore.

A lui diceva:

— Innamoratevi, Raimondo! Amate, fin che siete in tempo!

— Amo — egli rispondeva.

— Già!, la vostra Sirio.

— Sirio è maschio.

— Vedete che sproposito? E intanto vi sfugge il meglio: la donna.

— Il meglio?

— Il meglio! Non avete ancora imparato che siamo stati creati appunto per godere e per soffrire amando; amando come si usa in terra e non fra gli astri? Non avete ancora compreso che la vita è amore e amore è la vita? Non avete ancora pensato voi, signor pensatore, perchè la fanciullezza è così bella? Perchè anche la vecchiaia può essere bella?

— No. Perchè?

— La fanciullezza — non ridete — è come l’antipasto dell’amore.... E la vecchiaia può essere la tranquilla, beata, invidiabile digestione dell’amore. Non ridete, vi prego.

— Filosofia gastrica! — esclamò ridendo Raimondo. — Ma io mi pasco di luce.

— E siete cieco! Infelice!

Ebbene, sì: da qualche tempo egli si sentiva davvero infelice; ma non perchè si era lasciato rapir dalla scienza: anzi perchè alla scienza non si era dato con amore più saldo. Inoltrandosi negli anni e negli studi, a quel dilettarsi di una cultura superficiale e varia, al compiacimento di poter discorrere, con nozioni vecchie e nuove, di astronomia, di fisica e di chimica, di botanica e zoologia e mineralogia, eccetera, e di potere, con vive rimembranze, adornarsi di storia e filosofia e poesia, gli era seguìto nell’animo un senso di rammarico, come in chi s’avvede di consumare invano le sue forze.

E ora sapeva che non sapeva nulla di nulla, e sapeva tanto che immergersi nell’ignoto con l’ingenuità d’un bambino o d’un barbaro gli sarebbe parso ineffabile gaudio.

Ma anche ciò non poteva, perchè quanto aveva appreso gli suscitava dalla terra e dal cielo, in mille modi e mille forme, le tentazioni dell’ignoto e le prove della sua ignoranza particolare. E gli costava uno sforzo dire a sè stesso:

— Che importa il tuo soffrire, la tua ambizione insoddisfatta, se ti ricordi, Raimondo, che Sirio...?

Per fortuna Sirio non gli rifiutava tutti i conforti di quaggiù.

Con sincera stima — ne era certo — lo divagavano dall’intima cura un discepolo e un collega. Discepolo gli si protestava il capitano Turri; il quale, vedovo di una ricca signora, aveva da poco lasciato l’esercito, ed essendosi comperato una villetta a Castelronco, presso a quella dei Graldi, nell’amicizia dei Graldi trovava incitamenti a passar bene i giorni e le sere d’estate. Con Alfonso, Turri combatteva, fuori, in pro del partito dell’ordine; con Raimondo si riposava, in casa, imparando senza discutere.

E l’ammirata sommissione del capitano era tale che — mentre egli ascoltava — Raimondo, il maestro, provava gusto pur a dire delle corbellerie. Quando il poeta superava in lui lo scienziato, la fantasia gli rendeva verosimili le più strane ipotesi, le spiegazioni più ardite. Dopo, se ne doleva, temeva. Se Turri consultasse qualche libro? qualche scienziato?

Ma no!, fiducioso, Turri non consultava niente e nessuno, o, tutt’al più, si rivolgeva a Adriana, allorchè assisteva alle severe lezioni, chiedendo:

— Che fenomeni, eh, signora?

La signora rompeva in una delle sue gaie risate e rispondeva:

— E questo è poco! Chi sa in Sirio!

Ma con il collega le cose procedevano diversamente. Era l’arciprete. Meditativi entrambi, don Paolo e Raimondo interrompevano di silenzi e sospiri le discussioni serali e le cognizioni che s’impartivano a vicenda: afflitto don Paolo che alla dottrina dell’amico mancasse la direzione della fede, e malcontento Raimondo perchè all’intelligenza dell’amico mancasse la travagliosa eppur feconda necessità del dubbio.

Alcune settimane dopo la sera che Alfonso aveva mosso al fratello l’oscuro ammonimento — e Alfonso non ne aveva più tenuto parola nè Raimondo se ne era più ricordato — l’arciprete, dalla via, sorprese l’amico una mattina mentre curava i fiori prediletti.

E gli disse piano, timidamente, quasi:

— Ho da parlarle.

Andandogli incontro per il viale che metteva, un po’ di lungo, all’ingresso della strada, Raimondo pensava:

— Don Paolo mi sembra stralunato. Parlarmi di che cosa?

Di che avevano discusso nei recenti colloqui? Degli elementi dell’atomo (elettroni....); delle macchie solari in rapporto alla meteorologia....; di Darwin in rapporto ai neovitalisti....; della — ah, sì! — della pluralità dei mondi abitati — sì, sì — in rapporto alla religione e al dogma. E in presenza di donne egli si era lasciato trasportar troppo dall’argomento; aveva turbato, in grazia delle scandalizzate ascoltatrici, la serena tolleranza, la coscienza del bravo prete.

— Colpa di Sirio! — si disse ancora Raimondo vedendo con la mente il sorriso ironico di Adriana. Infatti al tema pericoloso li aveva condotti, quella sera, l’accenno al pianeta che gira intorno a Sirio in cinquant’anni.

Ma don Paolo parve anche più imbarazzato quando seduto sul sedile, tra il folto, cominciò a bassa voce:

— La nostra amicizia e la mia prudenza, anzi il mio dovere...., m’impongono....

Raimondo gli fu subito grato del tono dimesso, della soggezione manifesta, e pentito com’era d’avergli fatto dispiacere, affrettò:

— Ho capito, don Paolo. Lei ha ragione.

Il prete sembrò ora meravigliarsi di quella consapevolezza; ma l’altro abbassò gli occhi, quasi a significare: — Le dò ragione, sebbene l’amore della scienza mi giustifichi.

— Lei capisce — seguitò il prete, grato a un tempo che gli fossero risparmiate spiegazioni penose, e dolente di dover insistere per condurre l’amico al suo prudenziale consiglio.

— Lo scandalo.... Le chiacchiere.... La perfidia degli avversari....

Già: felici di dare addosso a un povero prete, che per l’amor della scienza si comprometteva in conversazione sopportando teorie irreligiose.

All’insistenza però del collega, Raimondo non volle più cedere del tutto; oppose, serio:

— Capisco; capisco. Ma non diamo troppo peso....

— Il mio timore — interruppe angustiato don Paolo —, il mio timore è che le voci, le accuse anonime pervengano all’orecchio di chi deve ignorare....

Dell’arcivescovo? Povero don Paolo!; si aspettava noie fin dalla Curia!

— Ha ragione — affrettò di nuovo Raimondo. — Le prometto....

Ma allora una bella risata squillò dietro di essi e li fe’ sorgere in piedi. Adriana.

— Bravo don Paolo! — esclamò. E scendendo per l’erta, tra i lauri: — L’ora è propizia!

Il prete, pallido, stentò a sorridere.

— Di giorno — la signora soggiunse — non si vedono le stelle, e adesso le sarà più facile persuadere questo ostinato....

— A che? — Raimondo chiese.

— A non perdere di vista le cose terrene!

Don Paolo guardò la signora con ricuperato animo. Disse:

— Forse sarebbe meglio, certe volte, perderle di vista!

E la signora fissò il prete.

— Oh! Così non deve dir lei, reverendo, che con tanto zelo compie quaggiù la sua missione di carità e di amore!

Anche Raimondo sentì l’ironia e gli dispiacque.

— Mia cognata — interloquì — mi giudica egoista, apate.

— Se non foste, non avreste sempre la testa in Sirio.

Sviato, il discorso proseguì scherzoso tra i due e lasciò libero il terzo di andarsene presto. Se n’andò, don Paolo, convinto d’avere provveduto alla sua missione.

— Ora la metterà in guardia — pensava. — Mi ha capito meglio lui di lei.

.... Ed era stata per Raimondo una notte quasi insonne, sebbene senza sospetti di nessuna sorta.

S’alzò all’alba; spalancò la finestra.

E si rimise, così vestito, sul letto. Nella quiete ancora notturna pesava l’aspettazione del giorno canicolare. Poi i suoni vi furono come gettati dentro da lungi ed estesi da onde che vibrassero basse e dense, quasi staccate dall’aria che le recava. Rari abbaiamenti e gallicini fiochi. Nè questi suoni rompevano l’immenso silenzio; e lo dilatavano, infinito, lo spesso zittìo delle locuste e il fondo e grasso gracidare dei rospi.

Solo una voce umana avrebbe rotto il silenzio immenso, avrebbe ridestata la vita; ma non si udiva una voce d’uomo. E guardando di là, da sedere sul letto, agli alberi che nereggiavano lungo il clivo, Raimondo pensava agli uomini, e gli parevano creature poco dissimili da quelli: la superiore anima degli uni non era radicata alla terra come la vitalità degli altri? Il pensiero non era forse vincolato alla materia bruta? O forse Adriana, nella sua ignoranza, scorgeva il vero? Unica realtà capace di idealità e spiritualità, unica illusione difesa e sostenuta dalla realtà sarebbe l’amore? Unica felicità addentrarci amando nella vita della materia, per illuderci godendo e soffrendo di superar la terra che ci avvinghia con radici tenaci fino alla morte?

Un galoppo veniva di lontano lontano, e Raimondo l’accompagnò con udito or più or meno sensibile. Lontano lontano.... E mentre la frescura lo riassopiva, e mentre gli pareva che quel galoppo strappasse affannosamente la strada, credè ricordarsi che Alfonso aveva detto di restare assente tre giorni.... Ma nell’avanzare il galoppo cadeva a trotto uguale; scemava; cessava. Alfonso? No. Non poteva esser lui che ritornasse un giorno prima, a quell’ora, dal luogo ove gli affari l’avevano intrattenuto, quantunque non di rado, per il caldo, viaggiasse anche la notte col suo buon cavallo.

Quand’ecco un rumore vicino riscosse dal dormiveglia Raimondo: un repentino, affrettato rumor di passi, nella loggia. Ascoltò. Non sognava. Qualcuno apriva le imposte della ringhiera. Balzò e corse alla finestra e.... Come in un sogno volle gridare al ladro, e non potè. Giù, d’un salto, dal balcone, il fuggitivo scompariva tra le macchie: riconoscibile. Riconosciuto! Lui!

E altri passi più forti per le scale e nella loggia; e lo sbattere violento d’un uscio.

Turri! Alfonso! Con la mente vacillante, col cuore stretto da un’angoscia mortale, Raimondo percepì le due imagini nella rivelazione istantanea, e tutto gli apparve in una improvvisa orrenda luce. Ah le parole delle Raffi! Solo adesso le ricordava! E insieme, d’un tratto, vide quanto avrebbe dovuto intendere prima, a poco a poco, se avesse ricordato e riflettuto: l’ammonimento del fratello («sta attento»), le parole delle Raffi («il capitano, dicono i socialisti, consola i mariti fuori e le mogli in casa»), la prudenza di don Paolo, gli infingimenti di Adriana. Vide Adriana, e tremò per lei. Di pietà tremò. Uscì, disperato.

Scendendo dal piano superiore, scarmigliata, piangente, con le mani in croce, disperata, lo affrontò la cameriera; e lamentando — Dio! Dio! — pareva rinfacciare a lui la storditezza, la debolezza, la viltà che non aveva saputo impedire, che non sapeva impedire. Raimondo si sentì mancare. Ma.... — l’uccide, l’ha uccisa! — ecco il colpo. E si precipitò verso là.

Alfonso uscendo lo respinse. Stringeva in pugno il revolver. Si guardarono nell’attimo tragico.

Fratelli?

E con voce ferma, con la stessa voce con cui aveva detto quella sera: — sta attento — Alfonso disse al fratello:

— L’ho uccisa.

CC BY-SA 4.0

Rechtsinhaber*in
Ulrike Henny-Krahmer

Zitationsvorschlag für dieses Objekt
TextGrid Repository (2024). Collection of Italian Short Stories and Novellas (1880s-1920s). La stella sirio. La stella sirio. The CLiGS textbox. Ulrike Henny-Krahmer. https://hdl.handle.net/21.T11991/0000-001D-9DA1-A