L‘asino nel fiume
La maggior piena era passata: ora la fiumana, contenuta nella parte più bassa, scorreva rapida, ma a piccole onde lievi lievi che s’inseguivano riscintillando. Il sole, nel sereno purificato dalla pioggia della mattina, la irradiava, vi si rifletteva quasi in liquido argento; e ove dilagava nel letto più ampio, l’acqua pareva espandersi dall’agitazione del mezzo e indugiare, di costa, in un tremolìo fulgido, frequente e incessante; come in una trepida gioia infinita.
Per passare dalla riva sinistra alla destra a caricarvi la ghiaia, i birocciai dovevano seguire la carraia che avevano praticata evitando massi e borri e seguire, sotto l’acqua, i solchi delle ruote. Discesero in fila: ritti su le birocce essi schioccavan la frusta ed incitavano con voci di iù! mentre trattenevan le redini; ed i cavalli a testa alta, scuotendo le sonagliere, entravano nella corrente e godevano a diguazzare in quella vivida intermittenza, a precedere o a tener dietro ai compagni attraverso quella confusione e quel palpito d’acqua e splendore. E l’esser passati era per gli animali e per gli uomini come un’allegra vittoria.
Venne ultimo, con la sgangherata biroccetta e l’asino, Sugnazza. Anche lui! Urlava anche lui; e bastonava. Ma l’asino non aveva baldanza: troppi digiuni e troppe bòtte. E quando non era ancor a metà del guado, si fermò. Si fermò rigido, a orecchie chine, con intenzione dubbia. L’arrestava l’ignota delizia del bagno, o lo atterrivano il luccichio e la vertigine? E non bastavan più il bastone e le grida.
— Dàlli, Sugnazza! — Arrì! — Forza! — ripetevano i birocciai sghignazzando, intanto che raccoglievano dai mucchi la ghiaia e la caricavano con fragore di badili. — Forza! Se no, l’acqua ti porta via! Dàlli!
Dava; e l’asino, duro. Finchè, fosse una randellata di tal sorta da affrettare il destino, o fosse una funesta illusione di riposo e di pace che irresistibilmente l’attirasse, la bestia si abbandonò e cadde; e Sugnazza battè il petto contro il riparo, dinanzi. Ahi! Calò, sì, subito, nell’acqua e, furioso, percosse, bestemmiò e maledisse; ma era finita. E quando fu certo....
— Gli è crepato l’asino! Gli è crepato l’asino! — esclamarono quegli altri accorrendo a vedere e a ridere.
L’asino non si mosse più. E quando fu certo, Sugnazza tacque; risalì nella biroccia prona su la bestia morta e vi si distese per il lungo, la testa poggiata su le braccia e la faccia in giù, con apparenza d’uno che cogliesse una bella occasione per schiacciare un sonnellino.
E per non disturbare nè lui nè la bestia i birocciai, al ritorno, tirarono un po’ da parte. Ridevano ancora.
Quel disgraziato — che matto! — sembrava voler passarsela così la sua batosta: pacificamente, dormendo!
Ma Sugnazza non dormiva. E non piangeva. Si vedeva, a occhi chiusi, morto di fame, là, press’a poco come il suo asino. Dal dì avanti egli non aveva ingollato cibo, e gli ultimi soldi gli erano andati, la mattina, in grappa. Un pezzo di pane a credito per qualche giorno, da qualche fornaio, lo avrebbe trovato; ma poi, cosa fare? Lavorare a opera? Chi l’avrebbe preso, ormai che il cuore gli ballava il trescone a ogni sforzo e i polmoni arsi pativan sete d’aria più che lo stomaco d’acquavite? E chi l’avrebbe voluto a servire in casa con quella tara che portava addosso da vent’anni? E chi gli avrebbe fatta volontieri l’elemosina, a un uomo che non era vecchio, e, quando poteva, si ubriacava?
O comperare un’altra bestia per la biroccia, o morir di fame. Questa la conclusione.
Ma se questa, di un altr’asino, era la sola speranza, bisognava persuaderne il mondo e dire: — O voi che potete mi aiutate, o io mi lascio morir di fame qui dove sono, con l’asino. Sissignori! E mantengo!
Veramente nell’opinione pubblica Sugnazza godeva stima di essere risoluto. Non per altro che per il modo con cui la vinceva sul suo compagno di sventura aveva suscitata sempre l’ilarità e, perchè no?, la simpatia dei compaesani.
Povera bestia!; più povera forse sotto la biroccia scarica che sotto il carico. Allorchè il padrone, dalla biroccia, s’ergeva a sostener la corsa per la maggior via del paese, l’asino dava uno spettacolo di pazienza e di sofferenza così sproporzionate da divertire anche la gente seria. Al grido annunziatore della tempesta incurvava il dorso quasi per offrir più alto il campo al randello e uscir tosto di pena; teneva stretta stretta la coda quasi per sottrarre sol esso, il suo unico inutile schermo; e finchè i colpi erano sopportabili interrompeva un istante l’andare abbassando la testa e rialzando un po’ insieme le gambe di dietro quasi per accusar ricevuta. Ma se le legnate piombavano senza misericordia, allora col torace vuoto e risonante l’infelice aderiva a una delle stanghe, in un vano tentativo di allontanarsi, e pareva piangesse con le orecchie.
— Dàlli, Sugnazza!
Dava; e quell’uomo lungo lungo, squallido, barbuto, brutto, sporco, assomigliava al destino che non lascia tregua all’umanità. Tutti riconoscevano un po’ sè stessi in quell’asino (siamo al mondo per soffrire); ma la virtù del saper soffrire è così rara negli uomini che diveniva amena a vederla in un animale di quella sorta.
Se però la bestia era sempre una bestia, l’uomo era sempre un uomo; e poichè pativa il tormento della fame, Sugnazza ora s’imaginava che ognuno — anche chi rideva dell’asino sotto le sue bòtte — si commoverebbe della sua disgrazia, della sua disperata decisione. Certo: il sindaco, l’arciprete, la Congregazione di carità, gli avventori, e, quantunque non fosse in lega, i fratelli della Camera del Lavoro, subito raccoglierebbero sussidi e offerte affinchè il disgraziato non si lasciasse morire là nel fiume, con l’asino. Certo: bastava informarli di questo proposito che aveva in mente, e tutti si darebbero d’attorno per aiutarlo. Nè a informarli mancherebbero messaggeri. Quanti, fra poco, correrebbero a vederlo e a compiangerlo, povero diavolo, da venti anni perseguitato dalla sfortuna; e adesso gli era spirato l’asino là in mezzo!
Non appena infatti i birocciai della ghiaia ebbero data la nuova all’osteria del borgo, qualche ozioso e parecchi monelli si affrettarono gaiamente allo spettacolo inatteso. Gli uomini ristettero sul ponte o sulla sponda sinistra; e chiamavano Sugnazza, e lo canzonavano con le grida e le apostrofi che egli usava con il suo asino: i monelli preferirono passare di là dalla strada e dalla sponda destra calar nel greto già asciutto; indi metter mano ai ciottoli. Della bestia non si scorgeva che la pancia gonfia, a fior d’acqua; dell’uomo si scorgeva solo quel che del dorso superava i ripari della biroccia; e la difficoltà di colpir giusto suscitava legittima emulazione. La sassaiola cadeva nell’acqua, sollevava spruzzi brillanti.
Ma — bene! — un sassolino toccò Sugnazza proprio dove più sporgeva a bersaglio.
Si alzò in piedi. Con quanta ira potè elevò il bastone, e sembrò sfidar l’aria; e tendendo l’altro braccio, per allargare la minaccia alla vastità della scena, urlò con quanta voce potè: — Lasciatemi stare! Il fiume è di tutti! Qui sono e qui sto; qui voglio morire, se chi può non mi aiuta! Diteglielo! — urlava. — Diteglielo! — urlò di nuovo rivolto a quelli che eran sul ponte. — Se non mi aiutano a comperare un’altra bestia, mi lascio morir qui, com’è vero Dio!
Ma a una nuova sassata, la lunga, grama, oscura persona di lui, che nella luce meridiana e nello splendore dell’acqua si sarebbe detto un fantasma non più pauroso rimasto là fuor d’ora, sopra una biroccia, per un caso buffo, si rovesciò a rigiacere e non die’ più segno di vita.
Frattanto, di bocca in bocca, la notizia andava per tutto il paese.
Al Caffè grande la portò un assessore, e il sindaco, che giocava l’ultima partita a biliardo prima di desinare, disse:
— L’asino deve essere seppellito dentro oggi; se no, si applica la multa a termini del nuovo regolamento d’igiene.
— Avviseremo Sugnazza — disse l’assessore.
— Ma lascerà di certo l’asino ad appestar l’aria e l’acqua, perchè, tanto, la multa non la pagherà mai!
— Gli si sequestra la biroccia — ribattè il sindaco. — Non varrà qualche lira?
E in canonica l’arciprete già desinava, quando il campanaro venne a raccontare che Sugnazza aveva accoppato l’asino attraversando la fiumana.
— Povera bestia! Ha finito di soffrire — l’arciprete commentò. — Speriamo che non ne capiti mai più nessun’altra sotto quelle mani!
Al pomeriggio il presidente della Congregazione entrava dal tabaccaio.
— Sa? Nel fiume, questa mattina, è crepato l’asino di Sugnazza.
Il presidente fece un comico atto di disperazione, e chiese:
— Aveva famiglia?
— Chi?
— L’asino?
Rispose uno:
— Aveva dei parenti, ma son tutti benestanti, e non dimanderanno sussidi; stia pur tranquillo!
E alla Camera del Lavoro il segretario esilarò i compagni, che vi riposavano e conversavano, esclamando:
— Poco male se a Sugnazza gli è morto l’asino. Con i quattrini che ha risparmiato a far il crumiro si comprerà un camion!
Quanto al cliente che fin dal mattino aspettava la sabbia da Sugnazza, non vedendolo arrivare e imparando il perchè, fece quel che avrebbero fatto tutti nel suo caso: andò in cerca d’un altro birocciaio che, come quello, non stesse alla tariffa della Lega. Nè il divertimento, dal ponte e dalla riva, cessò prima di sera. Verso sera venne anche una guardia municipale recando seco il nuovo regolamento d’igiene.
— Sissignore: seppellire i morti — borbottò Sugnazza. — Aspettate ancora un poco.
Ancora un poco.... Allo spasimo della fame gli era seguito un senso di ondeggiamento in cui gli pareva di sentirsi trasportar dall’anima. Ma la pena era adesso nelle visioni dell’inedia: torbide, tristi; di pianto. Bieca e cattiva più che ogni altra l’affannava l’imagine dell’uomo che era stato causa della sua rovina: a quando a quando il Biondino entrava evidente in quel turbine e gli diceva con un ghigno: — Muori?
Sì: moriva dopo venti anni di miseria, spossato nel cuore e nel petto, bruciato dall’acquavite; moriva d’inedia. E per lui!
Un breve amore; l’invidia che la donna sposasse l’altro; la gelosia e la provocazione dell’altro; la lite e la ferita — da niente — una scalfittura seguita dall’infezione per cui all’altro — il Biondino — s’era dovuto amputare il braccio; e il processo; e la condanna; ecco ciò che era avvenuto in gioventù ad Andrea Porta non ancora detto Sugnazza; ecco come l’odio aveva per venti anni avvelenato due esistenze; ecco perchè il vinto or vagellava in una torbida, turbinosa tristezza, in un’insania spaventosa, mentre l’imagine dell’odio, del Biondino poi detto il Monco, gli diceva ghignando: — Muori?
Ed egli, il vinto, ora per la prima volta si sentiva l’anima. Ondeggiava così leggera, così desiderosa di luce e di quiete! Per vedere se fuori di lui, nel mondo silenzioso, fosse già buio, Sugnazza si voltò supino, con fatica estrema. Quante stelle! E chiuse gli occhi senza più rivoltarsi, come alla rivelazione di una cosa orribile. Tanto bello era il cielo! e il mondo....
Nessuno aveva avuto compassione di lui che moriva. Nessuno! Nessuno!
— Ohe! Andrea!
Sugnazza trasalì. Da vent’anni non aveva mai più udito chiamarsi col suo nome. Piegò a pena il viso; e diresse lo sguardo verso dove veniva la voce; lontana lontana o lì presso?
— Ascolta, Andrea — seguitava. — T’ho sentito oggi quando hai detto quello che hai detto. Ma non son ragioni. Chi vuoi che ti regali un altr’asino?
Sugnazza udiva; e scampava, con lo sguardo, all’orrore di quella voce. Quante lucciole sulla costa! Nel silenzio, palpitavano di luce quasi in una gara instancabile; ed erano così fitte che elevandosi e ricadendo e volteggiando, ciascuna sembrava immobile.
— Credi d’esser disgraziato sol tu? — seguitava l’intollerabile voce. — A te ti è morto l’asino; io ho la donna all’ospedale, e non c’è speranza che si rimetta; e sai che lavorava lei per me, e guadagnava molto; da sarta. Io vado a ranocchi; ma adesso tutti son signori, e non ne vogliono.
Maledetto! Era proprio il Biondino!
— Mi ascolti, Andrea?
Sugnazza non avrebbe voluto vederlo, eppure era costretto a cercarlo con lo sguardo estremo. E una luce rossa, gettatagli contro, gli raccolse lo sguardo.
Allora lo vide, il suo nemico, illuminato in faccia dalla lanterna che aveva aperta per osservar lui — la lanterna con la quale affascinava i ranocchi —; e la luce rossa si diffuse nell’acqua intorno all’asino morto.
— Dunque — soggiunse il Biondino d’un tempo, ora il Monco —; dunque senti che pensiero ho fatto. Noi siamo stati disgraziati tutti e due, uno per causa dell’altro. Destino! tu hai rovinato me, io te. Ma io ho qualche risparmio, della donna, e ti posso aiutare; e tu, me. Ti compero io la bestia; e conduciamo il lavoro insieme. Io ti guido la bestia e tu mi dai biroccia e braccia: entriamo nella Lega per guadagnar di più; e il guadagno a mezzo. Ci stai?
Sugnazza voleva rispondere: — Tu, solo tu hai avuto compassione di me! — Ma per rispondere sospirò, e in quell’istante, in quel sospiro si sentì rapir lieve lieve via, fra una infinità di luci: lucciole o stelle.
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- Ulrike Henny-Krahmer
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- TextGrid Repository (2024). Collection of Italian Short Stories and Novellas (1880s-1920s). L‘asino nel fiume. L‘asino nel fiume. The CLiGS textbox. Ulrike Henny-Krahmer. https://hdl.handle.net/21.T11991/0000-001D-9DBF-A