L‘estro.
Diciamo il vero, signora mia: la dose d’ingenuità della quale madre natura volle provvedermi dev’essere proprio grandissima se da due mesi, contro le ostinate denegazioni di lei, e con la previsione dell’inutilità d’ogni ulteriore insistenza, io persevero a dimostrare concetti che ella dice arbitrarii, riprovevoli e insostenibili. E giacchè siamo a parlare d’ingenuità, le confesso proprio ingenuamente che comincio ad essere un poco stanco di predicare, come si suol dire — nè il paragone ha nulla d’offensivo per lei! — di predicare, come si suol dire, al muro. Ella è più salda nelle sue idee di un buon muro di sassi e di cemento! E di questa cosa evidente, della quale le ho dato una moltitudine di prove — senza che ella le abbia distrutte con prove contrarie! — cioè che l’amore degli uomini è una passione fortissima, uno struggimento ineffabile, un impeto veemente, senza fine maggiore di quello delle donne, ella non si vuol persuadere. Ella mi ricanta il solito ritornello: gli uomini amano più con i sensi; ma con l’anima amano meglio le donne; l’amore degli uomini è più positivo e pratico; più ideale e poetico è l’amor delle donne!... Ma, in nome di Dio, entri in una biblioteca e ne sfogli il catalogo. Quanti sono i libri d’amore, d’amore romantico, poetico e ideale, scritti dagli uomini? Sono milioni! Quanti quelli scritti dalle donne? Forse uno, in proporzione. E tutta la poesia che esiste al mondo sarà stata scritta dagli uomini senza che essi la sentano; mentre invece soltanto le donne sentiranno poeticamente; le donne, che di questa loro sublime poesia non ci riferiscono neppure una rima?... E’ vero, è purtroppo verissimo che uomini e donne non si possono intendere perchè ciascun sesso considera le cose sotto un certo aspetto tutto suo proprio; ma c’è pure una logica superiore al modo di ragionare dei sessi; e questa logica dice che la poesia delle donne amanti dev’essere un sentimento mediocrissimo, se non si esprime, se non le spinge a cantare; mentre forte e grande e sublime è la prorompente poesia degli uomini innamorati che empiono il mondo dei ritmici gridi della loro passione!... Sissignora: la prima sartina incapricciata del primo commesso di negozio che le dice una galanteria, spasima d’ideale e poetico amore; mentre l’amore di Francesco Petrarca e di Alfredo de Musset, di Dante Alighieri e di Giorgio Byron, di Enrico Heine e di Ugo Foscolo e di Victor Hugo e di Leopardi e di Shelley e di Goethe e di Lamartine è una roba — adesso scrivo in milanese! — tutta prosaica e materiale!
Io avevo messo da parte per lei, secondo la promessa fattale altra volta, alcune cose di Ermanno Raeli. Ella che non giudicò detestabili, come al povero amico mio parevano, le sue poesie, mi richiese di cercare se tra le carte del defunto se ne trovavano altre. Precisamente io avevo trovato un passaggio del suo giornale pieno di versi, e volevo trascriverli e mandarglieli senz’altro; ma la sua lettera odierna mi spinge a fare un’altra cosa. Queste poesie del Raeli sono intercalate in mezzo alla prosa, si riferiscono ad un suo stato d’animo, ai sentimenti che egli provava nell’atto di scrivere certe sue note. Or bene: egli aveva incontrato allora allora Massimiliana di Charmory e s’era innamorato di lei. Che cosa fu l’amor suo io narrai altra volta: qui ella leggerà dentro all’anima amante, assisterà all’improvviso divampar della fiamma. Perchè ella dia a queste note il loro giusto valore, comincerò col trascrivere le precedenti, le pagine anteriori all’incontro, nelle quali egli significa la sua depressione e il suo disgusto. Quando d’una donna che s’innamora ella mi riferirà qualcosa di simile, io le darò ragione. Noti che non le do ora queste pagine come sublimi: sono anzi molto mediocri, ma dimostrano di che straordinaria eccitazione, di che prodigiosa esaltazione, di che intellettuale e sentimentale fioritura è causa nel cuore d’un uomo l’amore. Ed eccole: avverto ancora che trascrivo senza mutare una sillaba, senza alterare neppure la disposizione dello scritto; rammento infine, per certe stranezze di stile, che Ermanno Raeli, come mezzo tedesco, scriveva spesso in un italiano tutto suo.
Martedì, 3. — Piove. E’ la stagione floreale, e piove. Il cielo è di fuliggine, la terra è di fango.
Mercoledì, 4. — Ricomincia a piovere, l’aria è calda e umida, una viscida bava pare sia stata spalmata su tutte le cose da un popolo di lumache e di serpi.
La sera di Giovedì. — Un cielo di Goya, lubrico, infame, pieno di turpi visioni.
Sabato. — Ora un sole di fuoco scotta ed abbrucia. La campagna fumiga, tutte le putredini fermentano sotto la terra acre.
9 sera. — Questi fiori sono germinati dalla putredine. Mi disgustano tanto quanto certe carni di sozzi animali che si nutriscono degli escrementi.
Il 15. — Per le vie io mi diverto a osservare l’andatura delle persone. Alcuni strisciano tortuosamente come rettili, altri saltellano come conigli, altri incedono come pachidermi. E l’impronta animalesca è nei loro visi. Certi nasi sono proboscidi, certe bocche sono grifi; ecco due orecchie pendule come quelle del bracco. E gli occhi! gli strabuzzati occhi bovini, gli occhi ferini del gatto, gli occhi rapaci del gufo! E le mascelle prognate, come quelle degli antropoidi! Se io stesso mi guardo allo specchio, l’espressione bestiale che scopro nel mio viso mi abbrutisce. Siamo tutti bruti. Niente ci differisce dai bruti. Udite le voci: nel piacere si grugnisce, nella preghiera si miagola, nella collera si abbaia; il grido del nostro dolore è in tutto simile a quello del dolore animalesco.
Sera. — Io guardo le donne, le eredi della bellezza. Non una, non una che me la riveli. Già le forme sono troppo nascoste dall’abito; e l’abito è goffo, innaturale e snaturante. Molte, la più gran parte, ne sono oppresse come le testuggini dalla scaglia; altre, quelle che chiamano regine della moda, lo sfoggiano come il pavone le penne. E i visi sono artefatti, le chiome o tinte o accresciute di peli morti, tolti a cadaveri; la pelle vellutata dai cosmetici e dalle polveri, le orecchie stirate dai pendenti come tra i Barbari. Bene è che i corpi siano nascosti, senza di che noi vedremmo una più lamentevole vista!
Giovedì, 18. — Ho incontrato una bella donna. La mia critica non ha potuto esercitarsi su lei. Era bella. Ma, sovraccarica di vistosi ornamenti al pari d’un idolo, il suo viso era vuoto d’espressione come quello d’un idolo di stucco o di marmo.
Sabato, 20. — Queste bellezze muliebri sono tutte vuote. Il loro sguardo è stupido, come la loro mente è pigra. In nome di Dio, evitate di udirle se non volete piangere della loro sciocchezza.
Domenica. — Forse la colpa è mia? Forse è il mio occhio, il mio giudizio, quello che niente riesce ad appagare? Forse un troppo alto ideale mi fa sentire tutto meschino? Se io leggo nel libro d’un grande scrittore non ammiro tanto le pagine sublimi quanto m’indugio e quasi mi compiaccio dinanzi ai passaggi meno felici, ai segni della fatale umana imperfezione. Io sento tutto imperfetto, manchevole e maculato.
La notte. — I miei versi! Ho riletto i miei versi antichi. Miseria ed ignominia! Io ho scritto queste cose!...
Lunedì, 30. — Gli uomini si festeggiano mangiando insieme. L’animalesco bisogno del cibo, che bisognerebbe contentar da soli, di nascosto, si soddisfa in comune, solennemente, tra faci e fiori. Le bocche si aprono, le mascelle masticano, gli esofagi ingozzano il bolo che la saliva ha impastato...
Mercoledì, 14. — Non c’è poesia senza bellezza e senza amore. Dove trovare una bellezza e come nutrire ancora un amore?
Dopo un mese. — Come è lungo il tempo!
Tornando dal Museo. — La bellezza espressa dall’arte, nel quadro o nella statua, è quasi perfetta e certamente amabile. Ma è anche muta ed è anche falsa: nella realtà non esiste.
Sabato, 7. — Forse il solo spettacolo capace ancora d’accendermi è questo della natura. Le rive boscose che si riflettono nelle acque d’argento, le sinuose linee dei monti, ora graziosamente inclinate e digradanti, ora erte e sfidanti il cielo; un paese lontano in mezzo a un virido piano o ad una valle rocciosa; un promontorio che s’allunga come una schiena immensurabile, un seno d’acque lucenti al par d’uno specchio, attraggono l’occhio mio, mi contentano e acquetano.
Lunedì, 9. — Questa natura è sublime. Più la contemplo più sento un’eccitazione secretamente prepararsi dentro di me; ma tosto ritorno allo scontento e alla disperazione di prima pensando che non ho alcuno cui comunicare l’eccitazione mia. Se pure io trovassi una creatura cui sentissi di poter dire tutto ciò che s’agita nell’anima mia, come potrei dirle queste cose? Esiste una creatura non solamente capace d’intendermi ma di farmi parlare?
Martedì, 22, sera. — Eccola.
Otto ore. — E’ lei.
Mercoledì. — La mia mano trema. Non so più scrivere. Volevo fissare sopra una pagina lo stato dell’animo mio, dire il mio turbamento, esprimere la meraviglia, la gioia, la gioia ancor quasi incredula, la meraviglia quasi ancor sospettosa; volevo indagare il tumulto di sentimenti che imperversa dentro di me, e non ho potuto dir nulla. Forma della Bellezza, lo sguardo tuo mi parla. Io mi sento rinascere. Io sogno. Io vivo. Dice una voce chiusa che questo sogno svanirà; e non me ne dolgo, e la tristezza delle previsioni oscure è incapace di sedar la mia febbre. Da un canto interiore, dalla musica delle cose, io mi sento spronato come dal clangore d’un’epica marcia. Partirò, me ne andrò lontano, riprenderò la vagabonda mia vita. Ma la memoria sua, come una luce pura, schiarirà la mia vita. Che dire?
Sinfonia. Il silenzio, la pace. Dormono l’acque dei ricordi, come uno stagno.
Non è questo. Non so dire. Chi mi suggerisce?
No, no, no.
Ecco. Ho trovato.
Ma guai al vinto, se tenta ancora illudersi, sognare, sperare; al vinto, guai!
Il pianto è dolce, soave, grato. Quantunque io disperi, la mia disperazione non è insopportabile. Forse una secreta inconfessata a me stesso speranza germina nell’anima mia?
Vederla! Vederla! Ancora vederla! Nutrirmi ancora della sua vista!
Voci di gioia.
Parole arcane.
Sospiri e fiamme.
Ah! le parole, le parole sonore, clamorose, squillanti, le parole che dicano tutto, io so le parole, sento di poterle trovare. Come un liquore di fuoco scorre per le mie vene; io mi sento travolto da un turbine risplendente e risonante.
Il tempo precipita.
Ho bisogno di cantare. Io ho riso della poesia, me ne sono vergognato come d’un linguaggio ridicolo, fuor della vita, fuori del vero. Ora il linguaggio di tutti i giorni mi par rigido, frigido, vuoto ed ingrato. Io canterò la sua bellezza buona, io canterò la grazia sua soave. Ecco che le mie frasi, senza ch’io me ne accorga, prendono naturalmente la misura del verso.
Cantare, cantare: sciogliere un inno che echeggi nei secoli!
No, Ella non vuole. Un dolore secreto la rode. Ella non vuole udire i superbi canti della gioia, ma i canti sospirosi della pietà.
Quale dolore cinge la sua fronte? Che visioni ricordano i suoi sguardi velati?
No, io non esercito più la mia critica. Che è la critica, l’ingrato, l’inutile, lo sterile esercizio? Io vivo, io vivo, io vivo. Crea la mia mente, il cuore palpita; le mie parole traducono il ritmo del cuore.
La sera è calata. Io sono lontano da lei, ma così pieno di Lei come se Ella fosse compenetrata e confusa in me.
Un altro poeta già chiamò nuziale l’ombra. Io ripeto l’imagine felice. L’ombra è nuziale. Che altre imagini misteriose essa risveglia! Non bisogna indagare. Il velo dell’ombra nuziale cinge, nasconde tutte le cose.
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- Ulrike Henny-Krahmer
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- TextGrid Repository (2024). Collection of Italian Short Stories and Novellas (1880s-1920s). L‘estro. L‘estro. The CLiGS textbox. Ulrike Henny-Krahmer. https://hdl.handle.net/21.T11991/0000-001D-9CDE-8