Chi di gallina nasce…

I.

Il dí che in Firenze per frenesia di Francesco De’ Medici era imposta su ’l capo di Bianca Cappello la corona di granduchessa, in Bologna Ercole e Alessandro Bentivogli facevano “dinanzi a casa loro correre a’ cavalli dei Monari dodici braccia di grossogron et una berretta di panno in segno d’allegrezza„; ma Pasquino domandava al conte Ulisse Bentivogli, il quale da tre anni era marito a Pellegrina figliola di Bianca e di Pietro Bonaventura:

Si Cosmi titulos Virgo foedavit Hetrusca
Quid faciet meretrix, heu, peregrina tibi?,

e nella interrogazione epigrammatica rideva una profezia. Spiace per altro non conoscere tutti i miracoli di cotesta contessa, che, se vera la storia, un’ultima colpa condusse a perire in età di trentaquattro anni piú miseramente di sua madre.

Il matrimonio del Bentivoglio, celebrato con gran pompa a Bologna il 24 agosto 1576 — recando la sposa allo sposo una dote di trentamila scudi e una beltà ancor puerile ma già meravigliosa —, era stato “di poca soddisfazione al paese„; onde il conte avea presa dimora a Firenze. Pure il 23 febbraio 1578, in occasione d’una breve gita di Bianca e Pellegrina a Bologna, “la prima nobiltà della città, sí di cavalieri che di dame„ era mossa ad incontrarle, “per rispetto al Granduca, per essere la detta Bianca sua cosa„; cosí come ad onore della figlia non piú d’una concubina, ma d’una granduchessa, il 22 dicembre 1583 furono incontro ai coniugi Bentivoglio, di ritorno per qualche mese alla patria, “quarantaquattro carrozze di dame e gran numero di cavalieri a cavallo, oltre li cavalli leggieri; et il Bentivoglio era a man destra di Pirro Malvezzi, non ostante che fosse senatore e de’ collegi„. Nell’aprile dell’anno appresso Pellegrina si recò di nuovo a Firenze per assistere alle nozze di Vincenzo Gonzaga e di Eleonora De’ Medici, e solo il 13 febbraio 1588, ma questa volta per sempre, riprese ad abitare in Bologna.

Con la fresca e fosca rimembranza della morte di sua madre si contenne allora in vita solinga? No, ché sentiva bisogno di distrazioni; e a primavera di quell’anno medesimo ebbe voglia, lasciando il marito a casa, di fare una scappata a Venezia in allegra compagnia di dame e gentiluomini; e ad autunno, nella venuta de’ duchi mantovani, si compiacque d’apparire per grazia e per fasto la prima gentildonna che fosse in Bologna a quel tempo.

Ma se delle qualità vere della persona e credute dell’animo suo avevano pure in Firenze diffusa l’ammirazione Francesco de’ Vieri detto il Verino, dedicandole il Discorso della grandezza et felice fortuna d’una gentilissima et gratiosissima donna qual fu Madonna Laura, e maestro Fabrizio Caroso offrendole tra i balli di sua composizione una “cascarda„ con a tema musicale un sonetto che comincia:

Luci beate ove s’annida Amore,
Vivi raggi del sol, dolci facelle
Che le piú gelide alme e le piú belle
Infiammate di santo e pure ardore

quegli che di lei ci lasciò il piú ingenuo ricordo fu il poeta bolognese Cesare Rinaldi.

Nel 1590 egli le porgeva la terza parte delle sue rime dicendole: “L’esser piaciuto a V. Eccellenza Ill.ma di favorire talora le sue rime della vista, della voce et del giudicio suo, ripieno di tanta acutezza et accortezza insieme, onde mostra la perfetta cognizione che ha di ogni bella virtú, mi ha facilmente indotto a credere che parimente non debba sdegnare di riceverle se nello uscir fuori a scorrere il mondo in istampa, non meno create di dentro che segnate di fuori del suo Ill.mo Nome, ora ritornano tutte insieme nelle sue onoratissime mani, donde sono partite, non altrimente che si faccia, come dicono, il fiume Meandro, il quale favorito da tanti canori et bianchissimi cigni alle sue rive con le loro meravigliose armonie, pare che nello scorrer il paese, ritorcendo il suo corso et raggirando, colà se ne ritorni donde partí, quasi allettato dalla dolcissima soavità dei cigni, come.... (coraggio, che il periodo finisce adesso e finisce bene!).... come le mie rime da quella di V. Ecc.za Ill.ma, veramente umano et candidissimo cigno in ogni virtú et regal costume„.

Candidissimo cigno in ogni virtú la figlia di Bianca Cappello? Ohibò!; e le rime son troppo “create di dentro„ co ’l nome di lei:

Cauto a gl’inganni Amor l’armi depose,
L’ale agli omeri strinse e le coperse:
Di pellegrino in forma ei mi s’offerse
E pellegrina idea nel cor mi pose.
Or vo pellegrinando....
A l’ombra di duo neri archi sottili
Due pellegrine stelle il mondo ammira....
Qual or io ti vagheggio,
Pellegrina gentil, misto in te veggio
Col celeste il mortai, col nero il bianco:

(allusione, pare, alla sua bellezza):

Sotto l’oscuro velo
Scopro candor di Delo;
Sotto la spoglia frale
Scerno virtú immortale,
Ond’al mirar non è l’occhio mai stanco;
Miro e mirando i’ godo, e ’n viso adorno
Scorgo la terra e ’l ciel, la notte e ’l giorno....
.... Quale al nascer di Palla alta e immortale
Versò dorato nembo
Sovra Rodi dal ciel l’eterno Giove,
Tali e piú care a te piovvero in grembo
Nel felice natale
Nove grazie d’amor, bellezze nove.
Folle chi mira altrove,
Che ’l bello è in te raccolto,
Vertú nel petto et onestà nel volto:
S’impresse a mille il tuo valor nel seno,
Quando coi pensier casti
Pellegrinasti, o Pellegrina, al Reno.
Qui ten vivi al tuo sposo onesta e bella
Sotto il soave giogo,
Qual Penelope fida al caro Ulisse....

Ma durante l’assenza del “caro Ulisse„, il quale nel 1595 fu con Antonio De’ Medici alla guerra in Ungheria, il poeta dovette farse avvedersi come era fallace la virtú da lui cantata immortale e come la non fida Penelope sapeva intessere varie tele di colpe.

II.

Nell’estate del 1598 su la famiglia Bentivoglio passava con tragica ombra una strana sciagura, che quarant’anni di poi porgeva argomento a uno sciatto romanzo di Girolamo Brusoni: la tragedia, se tale quella sventura, era stata velata di mistero, e il romanzo La Fuggitiva lasciando indovinare facilmente il nome dei personaggi e dei luoghi, parve ralluminarla; però esso ebbe, senza merito artistico, una grande fortuna. Ma quanta parte del lavoro fu imaginaria? Spoglio d’ogni particolare inutile e d’ogni sfogo di secentismo ne resta questo.

— Ulisse Bentivoglio, a festeggiare la recente nascita d’un figliolo, indisse una giostra nella quale il fratello di lui, Francesco, fu vinto solo da un incognito cavaliere: Flaminio Malvezzi, “giovinetto di mediocre fortuna ma di nobili spiriti„ e fatale amante di Pellegrina, che fino a quel dí “era rimasta indifferentissima degli amori„. Il valoroso Malvezzi presto ammalò di passione e la contessa durante un’assenza del marito lo consolò di baci; indi, in villa a Bagnarola, di qualche cosa di piú; e tanto andò la bisogna, come dice il Boccaccio, che l’adulterio venne a conoscenza della signora Isotta Manzoli, la zia del marito. Ma i consigli di questa dama prudente all’imprudente Pellegrina tornarono vani; vane le esortazioni di Filippo Pepoli, quando seppe anche lui la brutta faccenda, all’amico Malvezzi, per salvare l’onore del povero Bentivoglio; e alla fine una traditrice cameriera rivelò la tresca al suo innamorato, il figlio maggiore del conte! Il conte chiarito di tutto dal figlio dié incarico a suo fratello Francesco di ammazzargli o fargli ammazzare il Malvezzi e ripose la sorte della moglie in balía del granduca di Toscana. Onde meglio sarebbe stato per Pellegrina fuggire con l’altro suo amante, un Riario, che inutilmente gliene avea fatta proposta, perché un dí arrivò a Bagnarola Antonio De’ Medici ad assassinarla. —

Poco nel romanzo e meno, ma peggio, nella storia.

“Questa donna — Pellegrina — non seppe contenersi nelle sue inclinazioni; il perché da’ figliuoli mal sopportata, fu con motivo d’andare a spasso nelle valli d’Argenta sommersa in quell’acque per opera del figlio Francesco, che facendo nascere l’accidente da un meditato ripiego lasciò dar volta al legno ov’era, e la povera dama restò miseramente, senza verun aiuto, sommersa„.

Il drudo Flaminio Malvezzi trovò la morte nel 1629 militando in Fiandra sotto le insegne del marchese del Vasto: il marito Ulisse morí nel 1618, già vedovo da undici anni della seconda moglie Virginia Olivi: dei cinque figli di Pellegrina, Giorgio era stato ucciso a Firenze nel 1611 dal cavaliere Lanfreducci; Francesco, il probabile matricida, benché protonotario apostolico e cavaliere di Malta, fu decapitato a Roma in Torre di Nona il I dicembre del 1636 per mala vita e per aver offeso in satire il papa Urbano VIII; Bianca, se non finí tragicamente, fu cagione di tragedia, sempre per quella necessità d’atavismo che l’esperienza fermò nell’adagio — Chi di gallina nasce convien che raspi. —

III.

Andrea di Bartolommeo Barbazza fu, chi credesse ai suoi ammiratori contemporanei, un grand’uomo. Per l’esperienza sua nelle “arti cavalleresche„ acquistò nome come padrino in duelli, maestro e giudice di campo in tornei e giostre, compositore di querele non solo fra concittadini ma sí fra ragguardevoli personaggi stranieri che ricorsero fiduciosi al suo consiglio; piú, quale cittadino benemerito ottenne sommi onori in patria, a Bologna, dove a venticinque anni, nel 1607, fu eletto degli “anziani„ e rieletto nella stessa carica nel 1616 e nel ’28, e nominato senatore nel ’46 e nel ’51 gonfaloniere; piú ancora: egli ebbe lode di poeta “insigne„ e compose nientemeno che una “favola tragicomica boschereccia„, L’amorosa Costanza; una favola musicale, Atlante; un “intermezzo per musica„, Apollo e Dafne; un volume di “lezioni accademiche„ e non so quanti sonetti stampati qua e là per le raccolte. Ma il gran fatto della sua vita fu in partecipare alla liberazione di Giambattista Marini incarcerato a Torino e la grande opera sua in difender l’Adone: egli fu protettore e amico del piú famoso poeta del secolo XVII!

Tra le molte è memorabile questa lettera che il Marini gli aveva scritta a Bologna dopo lo spavento della pistolettata del Murtola: “Veramente io confesso di dover non meno alla memoria che V. S. serba di me et al zelo che mostra alla mia salvezza, che alla protezione della fortuna, che con particolar privilegio mi liberò di sí grave pericolo.... Son vivo, sig. Barbazza, e godo piú di vivere nella grazia di V. S. che nella luce del mondo; et credami che vive un suo servidore prontissimo a spendere in suo servigio quest’avanzo di vita in quel fervore di volontà che si richiede a tante obbligazioni. Io pensava di venire in persona a servirla et a godere le delizie del carneval bolognese, ma questo disturbo mi ha impedito.... Delle mie poesie non ho che mandare a V. S., perché tutti i pensieri mi son fuggiti dal capo al romor delle archibugiate. Le Muse son come gli usignuoli, i quali se mentre stanno a cantar sopra un arbore sentono lo scoppio del cacciatore, sbalorditi dalla paura non vi tornano a trescar per un pezzo....„.

Non è meraviglia dunque se il Barbazza di ritorno di Francia co’l cardinale Ferdinando Gonzaga, del quale a trent’anni era divenuto maestro di camera e co’l quale aveva viaggiato anche in Spagna; il Barbazza, che da Caterina De’ Medici aveva ricevuto in dono una collana d’oro e la croce dell’ordine di San Michele, e in Torino riceveva omaggi come poeta e diplomatico egregio, s’adoperò affettuosamente a salvare il poeta dalle calunnie e dalla prigione. Per amore del Barbazza il Gonzaga s’uní con l’ambasciatore d’Inghilterra a impetrar il perdono del duca, e il Marini libero e grato chiamò Andrea “difensore della sua riputazione„.

E che meraviglia se piú tardi il letterato bolognese assalí l’autor dell’Occhiale nelle Strigliate a Tommaso Stigliani, che stampò co’l leggiadro pseudonimo di Roberto Pogommega? Peccato che “per accidente„ rimanesse fuori da esse Strigliate questo Sonetto “molto galantissimo„, come fu detto dall’Aprosio che lo riferí nella sua Biblioteca:

Mentre, Stiglian, vo’ pel tuo Mondo in busca
E in lodarti il cervello mi lambicco,
Trovo che ’l naso in ogni buco hai ficco
Onde tanto saver non ha la Crusca.
È il tuo stil piú piccante di lambrusca
E del tuo Mondo novo assai piú ricco,
Onde pien di stupor tutto m’incricco,
Ché il tuo splendor l’istesso Apollo offusca.
Han le tue rime cosí nobil metro
Che qualora con esse altrui scorreggi
Mi raccapriccio ed ascoltando impietro:
Che se canti d’amore o se guerreggi,
O se rompi agli eroi su ’l fronte il pletro
Nell’armonia con gli asini gareggi.

IV.

Nel 1613 Ferdinando Gonzaga rinunciando al cappello cardinalizio e assumendo nome e potere ducale concesse ad Andrea Barbazza l’ufficio di cameriere segreto e l’onore di intimo consigliere. Ma presto il poeta sentí noia della corte di Mantova, e poiché aveva trentadue anni e nell’amor delle muse non trovava tutti i conforti che sono nell’amor delle donne, venne a Bologna a prender moglie: una figlia del conte Ulisse Bentivoglio Manzoli e di Pellegrina Bonaventura, quella tal signora famosa per errori e bellezza, pareva fatta per lui. E la sera del 23 aprile 1614 fu conchiuso il matrimonio con rogito del notaio Ercole Fabrizio Fontana, e tre giorni dopo la contessina Bianca Bentivoglio e il cavaliere Andrea Barbazza, testimoni i conti Battista Bentivogli e Alessandro Barbazza, si giurarono fede eterna nella chiesa di San Martino Maggiore.

Né alla solennità delle nozze mancò l’omaggio della poesia in forma d’un portentoso sonetto epitalamico dell’immortale Marini:

Vide Tebe due soli a le nefande
Opre crudeli, allor che ’l fier Tieste
Le mense formidabili e funeste
Colmò di sozze e tragiche vivande.
E due ne vide ancor Roma la grande,
Quando l’esequie dolorose e meste
Pianse di lui, ch’or nel seren celeste
Fatto lucida stella, i raggi spande.
Ecco or su ’l picciol Reno a gli occhi nostri
Non minor meraviglia il Ciel produce,
Non d’orror ma d’onor prodigi e mostri.
Coppia, ov’arde valor, beltà riluce,
Tu quasi un sole a noi doppio ti mostri,
O de la fosca età gemina luce.

In Bianca riluceva la beltà della nonna e della madre; era un angiolo, e ce l’attesta una lista di “motti„ pubblicati anni dopo e ricopiati poi dal Ghiselli, nella quale essa per un verso solo ebbe lode piú grande che tutte le belle gentildonne bolognesi del tempo suo. Giacché poco importa che a Francesca Sampieri convenisse dire:

‘Santi i costumi son, sante son l’opre,’

e a Laura Pepoli:

‘Alma real degnissima d’impero,’

e ad Orsina Leoni Magnani:

‘Al tuo presumer ben s’agguaglia il merto.’

Non stimo grave danno non aver veduta Isabella Angelelli

‘Nelle ruine ancor bella e superba;’

forse fu piena di grazia Benedetta Pinelli Ercolani

‘Oh quanto è ritrosetta, oh quanto è schiva!,’

e furon forse desiderabili Imelda Lambertini,

‘Primavera nel volto e nella testa,’

e Pierina Legnani:

‘Bruna sei tu ma il bruno il bel non toglie;’

dovette anche recare certa consolazione piegare a soavi atti donne come Costanza Cospi,

‘Un sí bel viso, un cuor di tigre e d’orsa!;’

Aurelia Marsili,

‘Beltà ch’asconde un cuor ritroso e schivo;’

Laura dall’Armi,

‘Mirata de ciascun passa e non mira,’

e la contessa Bianchi

‘Campeggiar d’occhi e fulgorar di sguardi;’

né dovettero spiacere le carezze di Ginevra Isolani

‘Oh bella man che mi trafigge il cuore!;’

ma quale de’ gentiluomini bolognesi non avrebbe ceduto magari l’amore di tutte per l’amore della sola Bianca Bentivogli Barbazza

‘Alli spirti celesti in vista eguale —?’

Dicono che Bianca Cappello ebbe i capelli biondi e gli occhi neri (io non ricordo la tela in cui la ritrasse il Bronzino); il poeta Rinaldi pareva ammirare in Pellegrina Bonaventura il candore della carnagione nel lume dei neri occhi e nel riflesso dei capelli neri; a Bianca Barbazza, rassomigliante in questo alla madre piú che alla nonna, fu pure attribuita la vivacità del “nero e del bianco„ in altra serie di “motti„, parte satirici e parte laudatori. Eccone alcuni:

Piombino da muratore — Virginia Ricordati Maranini

Il zibellino — Dorotea Albanesa Bulgarini

La mula del papa — N. Simoni Peppia

Il guardo soave — Diana Barbieri Rinieri

Il parapetto — Caterina Caccialupi Alamandini

La Ninfa — Livia Rossi Fantuzzi

La modesta — Camilla Beri Bandini

La tramontana — Camilla Orsi Leoni

La buona — Camilla Orsi Ghisellieri

La favorita — Doratrice Oro Gambari

La matrona — Silvia Orsi Sampieri

La pensosa — Valeria Lambertini Guidotti

La buona notte — Claudia Fantuzzi Paltroni

Il delfino, La cassa di noce — Camilla Fantuzzi Bandini

Il buondí — Clementina Orsi Ercolani

Il falcone — Orsina Foscherari Favi

L’Armida, Il Giardino d’Amore — Lodovica Amorini Campeggi

La parlatrice — Olimpia Guerrini Ghiselli

La splendida — Ippolita Campagni Ghiezzi

Il bianco et il nero — Bianca Bentivogli Barbazzi.

Ma le sembianze di Bianca Bentivogli meritaron ben altro che l’insulsa indeterminatezza di questi attributi! Ella, “sole di beltà„, come la chiamò il Malvasia nella Felsina pittrice, per arte di Guido Reni si rivide immortale in figura d’una Cleopatra che Andrea Barbazza acquistò, non so l’anno, e Antonio Bruni credette di rendere in rima:

.... Non sembra in tela espressa,
Perché il pittor l’avviva, amor l’ancide;
Le dà spirto il pennel, l’angue l’uccide.

Cosí dunque, con lieve sforzo di fantasia, possiamo imaginare Bianca nell’effusione di tutto il giovanile splendore a quella festa che né pure un anno dopo le sue nozze, al carnevale del 1615, fu data nel palazzo del Podestà, e che per magnificenza d’apparati e vestiari e novità d’invenzione e per la nobiltà dei cavalieri che vi tornearono — con essi anche il Barbazza e il fratello di Bianca Alessandro — parve meravigliosa e degna d’imperituro ricordo.

Ne era venuta l’idea a parecchi gentiluomini i quali avendo ricercato una sera, come solevano di frequente per passare le ore, “qual fosse la piú espedita via d’acquistare la grazia dell’amata donna„, né essendo riusciuti ad accordarsi sulle varie proposte, avevan risoluto di rimettersene al giudizio delle armi. Detto, fatto; e per l’operosità in ispecie di Gabriele Guidotti, che inventò favola e macchine, curò l’allestimento del teatro e instruí i cavalieri, il 2 marzo a un’ora di notte tutta l’eletta società di Bologna poté convenire all’atteso divertimento.

Tre ordini di gradini e tre ordini di logge accolsero gli spettatori: nei gradi a mezzodí le dame; di fronte a loro il cardinal legato Capponi e i magistrati; a destra e a sinistra i cavalieri. Nella scena dell’azione s’ergeva un tempio dorico circondato d’alberi; nell’alto, al principio, s’aprí una nube e apparve Giove in mezzo agli dei; e a lui Venere, con a lato il figliuolo cui accennava, chiese licenza di scendere in terra per soccorso e consiglio delle misere donne. Giove, manco a dirlo, assentí, e la nuvola si rinchiuse. Ed ecco uscire dal tempio un coro di sacerdoti, i quali si disponevano a sacrificare alla dea un leone un capro e un drago, quando a suono d’una musica sí dolce che — asserisce uno il quale l’udí, non io — “tutti gli spettatori sembrava ardessero del soavissimo fuoco d’Amore„, comparvero Venere e il figlio e l’amico di casa, Marte. Amore liberò le belve dall’imminente sacrificio:

E questo altar or sia — disse
Il tribunale ove porrò la seggia
Per giudicar de’ cori
Quali sian di pene e premi
Meritevoli ardori.

Un Amorino venne a querelarsi al picciolo Iddio di certa giovinetta che aveva abbandonato l’amante suo, ma poiché Venere difese la colpevole e poiché Marte, il quale aveva ragioni sue proprie di contraddizione alla dea, sostenne il cavaliere amante, bisognò trovare la fine del contrasto in particolari certami e in un generale torneo. Veramente ci fu ad intermezzo la comparsa della Gelosia in forma di larva orrenda con uno stuolo di “mostri neri ignudi alati„ e “con uno strepito di anime perdute„ in una voragine di fuoco; ma come la femmina maligna non riuscí a “mettere contagio nell’anima degli spettatori„ — asserisce uno spettatore, non io — posso risparmiarne la descrizione.

E siamo cosí al meglio dello spettacolo. Arrivano due tamburini, ventiquattro paggi con scudi, e sei staffieri con due azze, due picche e due mazze; e dietro loro i cavalieri padrini del mantenitore, Francesco Cospi e Giovan Gabriello Guidotti; poi infine il mantenitore di Venere, Alessandro Bentivoglio, “vestito di morello e d’argento; calza intiera con tagli di cordelle d’argento, foderate di tela d’argento e morella, e strascinandosi dietro lunghissimo manto di seta morella, ricamato di fiori d’argento e di vari colori, tempestato di grosse gemme e perle, con cimiero altissimo di piume in pomposa mostra„. Di contro a lui, in una pianura, sorge uno scoglio con sópravi una donna — la Terra! —, che esorta le donne ad amare e cantare le lodi di Amore e quindi se ne va, mentre giunge una testuggine (qualcosa come il cigno wagneriano) recando con i loro padrini i due cavalieri Florimanno e Ribano — Alessio e Giovanni Orsi —, i quali vengono a sostenere “che la virtú non è compagna d’Amore„. Ma mal per essi, giacché Candauro, ossia il Bentivoglio, li abbatte entrambi. E sparisce la scena e apparisce il mare in cui s’eleva Proteo a dire anche lui non so quali belle parole: indi due altri cavalieri arrivano per farsi vincere dal cavaliere di Venere. Seguono due altri condotti da Iride, dei quali pure avviene l’abbattimento, e poi....

“... udissi un rimbombo.... et il cielo incominciò a rosseggiare, e balenando e fiammeggiando in guisa che parea che egli veramente ardesse, e a poco a poco radunandosi tutte quelle fiamme in globi, formarono come nuvola di fiamme in mezzo della quale udivasi la voce di persona, che rassomigliava il Fuoco, e cosí diceva de’ suoi cavalieri:

E questi miei di vive fiamme ardenti,
Fiamme, che il loro Amor, che l’altrui sdegno
Si nutre al cor cocenti,
Non troveran da te pace e pietade,
Rigida inesorabile beltade?
Io qui con lor, donne gentili, vegno
Per palesarvi solo,
Nel fiammeggiante lor tacito aspetto,
Qual sia la pena e ’l duolo
De l’infocato petto....

“Dopo le quali parole chiusasi la nuvola, continuamente spargendo raggi e faville di odorate fiamme, venne ad abbassarsi infino all’orizzonte, e quivi scoppiando con molti tuoni e baleni, espose fuori.... (oh meraviglia!).... il signor Andrea Barbazzi, cavaliere dell’ordine di San Michele e giovane di animo eguale alla grandezza del suo nascimento et di vero valore, et insieme il signor Ippolito Bargellini, non inferiore di generosità d’animo et di altezza di pensiero a chi si sia, i quali erano vestiti superbamente con calze intiere alla spagnuola, a tagli di cordelle d’oro e d’argento, foderate di tela d’oro ardente, con fiamme rosse, con le facelle di fuoco ardente in mano, cimieri altissimi fabbricati con piume rosse e fiori d’oro, a guisa di lingue di fiamme, che in forma di piramide ascendevano al cielo....„. “Li seguivano due gran Ciclopi ignudi, se non in quanto erano ricoperti vagamente in parte nel petto e nei fianchi da drappi dell’istesso colore del quale erano vestiti i primi; portavano due gran facelle nelle mani accese et pesanti martelli, et avevano un sol grand’occhio in mezzo la fronte; la faccia affumicata e rabbuffati i crini, e barba folta, sicché propriamente parevano Sterope e Bronte che venissero dalla fucina di Volcano e da gli incendii etnei ad accompagnare i cavalieri ardenti„. E tanti altri cavalieri successero che se ne composero squadre e, seguendo il torneo generale, gli eroi, sempre per divergenza d’opinioni intorno il miglior modo d’amare, “incominciarono con li stocchi in tal maniera a ferirsi che fecero impallidire i sembianti ed agghiacciare di gelata paura il cuore a molte di quelle bellissime dame„. Ma a conforto di esse si fé innanzi Amore a comandare tregua e quiete e a dar la sentenza pacificatrice:

Chi cerca, amando e oprando, amore e fama,
Merta il pregio d’Amore e sol ben ama.

V.

Può darsi che Bianca Barbazza vivesse parecchi anni rattenuta in onestà dalla trista rimembranza della madre sciagurata, ma alle amiche le quali ne invidiavano la bellezza, ai corteggiatori che non potevano sperare trionfi su lei, a tutta quella società che l’attorniava avida di pettegolezzi e di scandali dové poscia e finalmente recare conforto la voce d’un fatto sicuro: Bianca aveva per amante il marchese Fabio Pepoli e traeva una tresca con lui. Si riferiva il tempo e il luogo de’ loro segreti convegni e nelle conversazioni e nei ritrovi si coglievano senza fatica le loro occhiate bramose e i sorrisi e gli accenni; e il Pepoli ardendo di violenta passione non avvertiva di procedere cauto, e la dama o non sapeva frenare l’impeto suo, o cieca anch’essa d’amore gli consentiva senza troppi riguardi. Forse solo il marito poeta non s’adombrava per la solerzia del marchese in servirgli la moglie e si spiegava ogni cosa con la libertà delle “convenienze cavalleresche„; ma i fratelli di lui, cui premeva intatto il “lustro„ della famiglia, osservavano bene e ascoltavano. Però il conte Guido Antonio trovandosi nell’estate del 1621 a certa festa di ballo, alla quale erano pure gli amanti o si discorreva di loro, disse abbastanza alto da essere udito: — Provvederemo! —

I Barbazza non scherzavano e i loro bravi erano usi “di fare all’archibugiate ogni giorno„, onde Fabio Pepoli, messo in guardia, volle prevenire il compimento della minaccia con audace prontezza, e d’accordo con gli amici Aldrovandi, Vizani e Riari il 6 luglio su l’ora di notte venne in piazza san Domenico verso casa Barbazza: il luogo era deserto; solo, un po’ lungi dalla porta, Guido Antonio se ne stava al fresco. E su lui precipitarono i giovani cosí all’improvviso che egli non fu in tempo a ritirarsi in casa e dové schermirsi male armato ma con cuor di leone: i colpi piovevano e uno lo feriva al capo; egli indietreggiava urlando, e indietreggiando stramazzò nella chiavica ch’era in mezzo della strada. Cosí fu salvo, perché gli assalitori persuasi d’averlo morto fuggirono e sfuggirono ai fratelli del conte giunti in soccorso. Guido guarí dopo poco della ferita e per attendere a sicura vendetta — ebbe il nome di vendicatore prudente — interruppe il romore dell’accaduto asserendo con tutti di ignorare chi l’avesse aggredito e dando a credere d’essere stato còlto in isbaglio.

Non passarono quattro mesi che Guido Antonio incominciò dal mover questione e dal ferire il conte Filippo Aldrovandi, compagno di Fabio Pepoli nella bella impresa contro di lui: quanto al Pepoli, come malaccorto, avrebbe finito co ’l farsi egli provocatore. Infatti l’ultimo giorno di gennaio del 1622 in via San Mamolo, dove i cittadini carnescialavano al corso delle maschere, Fabio s’imbatté in Guido Antonio e susurrò qualche cosa all’orecchio d’un amico, né, ad un secondo incontro, disse piano queste parole:

— Conviene che m’imbatta sempre ad incontrare questa razza di b.... f...! —

— Quest’è troppo: andiamo! — disse allora il Barbazza a un suo confidente; e l’uno e l’altro furono in due passi a casa a mascherarsi da villani, e armati di terzette tornarono nel corso. Il satellite avrebbe dovuto sparar egli una archibugiata alle spalle del Pepoli quando gli tornasse appresso, ma al momento opportuno gli mancò il coraggio; il conte allora mirò rapido e sí dritto che colpi a morte il marchese; poscia si dileguò tra la folla in confusione per l’accaduto, corse a casa, depose gli abiti di maschera e tornato subito in San Mamolo venne alla farmacia della Pigna, dove giaceva il moribondo, e con voce ferma eppure compassionevole: — Che peccato — esclamò — che questo cavaliere abbia fatto una tal fine! —

Ma tosto Guido Antonio, Astorre, Romeo e Giacinto Barbazza con un loro zio, pei quali tutti oramai spirava mal’aria in Bologna, si nascosero in casa di Giambattista e Aldobrandino Malvezzi, loro fratelli uterini, e con l’aiuto di essi scalarono nella notte le mura della città e si diressero a rifugio in Piemonte. Troppo tardi l’indomani fu per ordine del Cardinal Legato pubblicata una grida che proibiva l’andare in maschera “sotto pena di galera et altre pene„ e furono chiuse le porte della città, ad eccezione di quelle di Strada Maggiore e San Felice, per le quali tuttavia non era concesso d’uscire “senza bollettino, sotto pena della vita„.

Fabio Pepoli, dopo ventiquattr’ore di strazio, spirava lasciando il dovere di vendicarlo ai fratelli suoi Guido e Giampaolo. I quali pregarono anzi tutto il Granduca di Toscana d’intromettersi ad accertare se i Malvezzi avessero per caso avuto parte nell’assassinio del loro fratello: il Granduca indusse il Legato Ubaldini a raccogliere prove che i Malvezzi non erano colpevoli; poi egli e il cardinale, per amore di pace, fecero giurare a Giambattista e ad Aldobrandino Malvezzi “su l’onore di veri cavalieri„, e il giuramento porre in scrittura di notaio, che “non avevano dato consiglio aiuto e favore alcuno, né con assistenza né con qualsivoglia altro modo ad eseguire l’assassinio di Fabio Pepoli„, e che mai avrebbero porto “consiglio, favore et aiuto ai signori Barbazza„, né avrebbero mai offesi i Pepoli o “tentato d’offenderli né per sé né per mezzo d’altri„. Ma non giurarono, furbi!, di non aver aiutati i loro parenti a fuggire. I Barbazza scampati alla forca rimasero molti anni alla corte piemontese: Astorre, il quale ebbe su l’anima parecchi delitti, fu condannato a morte in contumacia, ma ottenne poi grazia nel 1659, “in riguardo alla sua grave età„, pagando quattro mila scudi; e la pace fra le famiglie dei Barbazza e dei Pepoli non fu conchiusa che morti Guido e Giampaolo Pepoli e solo per intromissione dei príncipi di Savoia e di Toscana.

Quant’odio dall’amore di Bianca Bentivoglio!

VI.

E quanto misero il retaggio di Bianca Cappello; retaggio di colpe, di sciagure e drammi foschi! Ancora un mistero: la contessa Barbazza nei sette anni che trascorsero fra la morte del Pepoli e la sua morte, quetò forse, per sconcia avidità dei sensi, ricordi e rimorsi in nuovi amori, finché la frenò e a poco a poco l’uccise il veleno propinatole dai congiunti, o piú tosto patí ella sette anni interi, da prima la cupa fantasia rinnovandole giorno a giorno lo strazio di quella scena — a un colpo d’archibugio l’uomo amato cadere sanguinante e dolorare e gemere tra una folla di maschere — e poi, di pari, consumandola giorno a giorno la corrosione lenta della tisi, se non del veleno e della vendetta maritale? — “Il 15 ottobre 1629 morí Bianca Bentivoglio Barbazza d’una lunghissima e penosissima infermità, che a poco a poco l’andò struggendo; e non fu chi non dubitasse che non le fosse stato dato il diamante a causa della corrispondenza col marchese Fabio Pepoli„.

Troppo lasso di tempo sembra che fosse tra l’offesa e il castigo; ma pure un fatto aggraverebbe sopra Andrea Barbazza il sospetto di uxoricidio: egli compose e pubblicò una canzone, una canzone di ventinove stanze, in morte di sua moglie.

Da sí vasto ocean d’amari affanni
Ov’ondeggio caduto,
Deh! chi recando aiuto
Sia che mi tragga a riva? E chi consola
Naufrago il cor tra le miserie e i danni?
So ben che morte sola
Può dar fine al martir, posa al cordoglio,
Ma sol per piú morir, morir non voglio....

E nel secentesimo di questi e di quest’altri versi sarebbe bastevole e facile prova di ipocrisia e di mal tentato inganno:

Quando l’alma di lei che ’l Ciel mi diede
Dal casto vel si sciolse
E ’l Ciel se la ritolse,
Privo restai de l’anima e del core,
Orbo di gioie e d’aspre cure erede;
Ond’è solo il dolore
Che mi sostiene e serba il petto vivo,
Benché de l’alma io sia vedovo e privo....

Se non che seguono altri versi per cui converrebbe supporre nel cavaliere Barbazza una perversa sottigliezza a coprire il suo delitto. Egli lamenta in un punto:

Vidi....
.... la beltà che tanto amai
Farsi preda a maligno
Umor, che di sanguigno
Foco sparse il bel volto e del bel petto
Tinse il candore, e chiuse agli occhi i rai
In cui visse il diletto
E col diletto Amor, ch’ha per fortuna
D’aver la tomba ov’ebbe in pria la cuna....;

No! Io sono docile alla commozione della poesia; io odio la malignità nella storia; io credo al diarista Galeati: “Il 29 ottobre 1629 (data certa) morí l’illustrissima signora contessa Bianca del conte Ulisse Bentivogli, di febbre etica„. E con pena sincera do fede a un povero marito che si duole, privo degli occhi languidi consolatori e preganti consolazione della sua moglie soave, cosí:

Quegli occhi, dico, a me sí dolci e cari,
Ch’ancor nel duol sepolti
In me vidi rivolti.
Quasi ad uopo maggior languidi e mesti
Pietà chiedendo in muti accenti amari....

Pietà! — gli aveva chiesto Bianca con i brividi del malore e del rimorso; ed Andrea le aveva perdonato, son certo, con gentile misericordia di poeta; né, lei seppellita, poté forse resistere a non piangere piú volte nella chiesa del Corpus Domini e a pregare spesso Santa Caterina de’ Vigri, vicino al cui corpo incorrotto è la tomba dei Bentivoglio, che Iddio lo ricongiungesse alla pallida e tremula fiammella della sua Bianca.

Canzone, imponi al canto, al pianto freno:
Ben so ch’a me non lice
La mia cara Euridice
D’indi ritorre ove beata splende,
Ch’ivi affanno non ha di duol terreno.
Ma lieto amor l’accende
Che ’n Dio la stringe e con devoto zelo
Fa che m’inviti a rimirarla in Cielo.

Affettuoso uomo fu Andrea Barbazza: tanto vero, che per il bene che egli volle alla sua nuora impudica, Settimia Mandoni, le male lingue asserirono ottenesse il senatorato ed altri uffici mercè i favori di lei tanto vero, che a sessantasei anni s’accese di Silvia Boccaferri, la quale egli, rimasto vedovo quasi vent’anni di Bianca Bentivogli, sposò in Santo Stefano il 30 maggio del 1648.

CC BY-SA 4.0

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Ulrike Henny-Krahmer

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TextGrid Repository (2024). Collection of Italian Short Stories and Novellas (1880s-1920s). Chi di gallina nasce…. Chi di gallina nasce…. The CLiGS textbox. Ulrike Henny-Krahmer. https://hdl.handle.net/21.T11991/0000-001D-9D20-C